“Vorrei sposare…FitzChevalier Lungavista” e altre dichiarazioni d’amore
- Martina Nicelli
- 3 set
- Tempo di lettura: 3 min

L’Apprendista assassino è uno di quei romanzi di una vita, che rileggerei costantemente e che ogni volta mi stupisce con qualche nuova sfumatura. E lo dice una che i fantasy – per deformazione mentale, probabilmente – li ha sempre trovati insopportabili. Eppure.
La storia si apre con Fitz, un bambino portato a corte e immediatamente etichettato come “bastardo reale”. La sua esistenza diventa un segreto ingombrante, un’ombra scomoda (Fitz viene addestrato come assassino di corte), eppure da quella condizione nascerà un destino unico. Fin da subito, Robin Hobb costruisce un mondo che ti avvolge: non solo castelli, intrighi e magie (neanche così tante, a dire il vero), ma una dimensione emotiva e umana che non ha nulla da invidiare alla letteratura russa (genere che, confesso, non sono mai riuscita ad apprezzare davvero. Forse perché, come me, parla troppo e non arriva mai al punto della questione?).
Questo romanzo (primo di una trilogia, quella dei Lungavista, la casata reale che regna sui Sei Ducati) non è solo un fantasy. È una storia di crescita, di solitudine, di ricerca di appartenenza. Fitz non è l’eroe classico che sa sempre cosa fare: è fragile, smarrito, a volte spezzato, a volte insopportabile. Ed è proprio questa vulnerabilità a renderlo irresistibile: ci si riconosce, ci si affeziona, si soffre con lui.
Fitz è diventato il mio amico di penna, il compagno con cui condividere le mie giornate, l’amico a cui telefonare di rientro dal lavoro solo per fare qualche chiacchiera vuota, il fidanzato a cui raccontare i segreti e le speranze di una vita.
C’è un passaggio che per me racchiude tutta la sua essenza: “Se prima avevo pensato di essere una cosa sola con l’equipaggio, ora ero immerso in loro. Le emozioni mi colpivano e mi spingevano in avanti. Non saprò mai quanti o quali sentimenti fossero i miei. Mi sopraffecero, e FitzChevalier si perse dentro di essi”. Allo stesso modo, mi sentivo io pagina dopo pagina, intinta in una vita lontana secoli, forse mai esistita nella storia dei mondi, ma tanto vivida da apparire reale.
Ogni lezione, ogni segreto appreso nel silenzio della notte, ogni sguardo di diffidenza che Fitz deve sopportare… tutto contribuisce a trasformarlo, pagina dopo pagina, in qualcosa di più grande e dolorosamente umano. Ogni emozione di Fitz diventa la tua, e quando chiudi il libro ti accorgi che hai respirato insieme a lui.
Un altro punto che mi ha rapito è la capacità della Hobb di mescolare magia e politica senza che una sovrasti l’altra. L’Arte e lo Spirito non sono solo poteri, ma riflessi dell’anima, modi di entrare in contatto profondo con gli altri e con sé stessi. Ogni magia è un rischio, ogni alleanza è una ferita possibile.
L’Apprendista assassino non fa sconti: ti chiede di soffrire, di provare rabbia, di empatizzare fino in fondo. Ma in cambio ti regala i personaggi tra più vivi, complessi e indimenticabili che io abbia mai incontrato. Non solo Fitz.
Un plauso va anche alla traduzione: consiglio la lettura di questi romanzi anche solo per la bellezza dei nomi dei luoghi e dei personaggi (se per qualcuno potesse bastare solo questo. Ad esempio, a me basterebbe). Borgomago, Castelcervo, Cala Limosa sono solo alcuni dei luoghi che costellano il regno dei Sei Ducati e che profumano di fiabe e di quel Medioevo pulito e magico che, probabilmente, esiste solo nelle nostre menti contemporanee. Dama Pazienza, Re Sagace, Principe Veritas. In questo mondo, il nome segna il destino. Chevalier è galante e puro di cuore, Regal è altezzoso, Mani è uno stalliere instancabile. Non oso immaginare le conseguenze se accadesse nel mondo reale.
Rileggendolo per l’ennesima volta, mi sono chiesta perché non sia diventato un caposaldo del fantasy e perché non sia diventato famoso, soprattutto negli anni in cui il genere era una vera e propria macchina da soldi. Non ho una risposta, ma forse è meglio così. Chi conosce Fitz lo sa: lui non vorrebbe diventare famoso, ma solamente essere amato.
Ed è questo, in fondo, il dono del libro. L’Apprendista assassino non ti lascia uno spettacolo di battaglie o magie, ma un amico silenzioso che resta con te. Io ho scelto di amarlo. E sono sicura che chiunque gli apra la porta, non potrà fare a meno di farlo.
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