Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con "Letteratour". Lo trovate anche a questo link: https://www.letteratour.it/recensioni/jonasson-angelo-delle-nevi.asp
I gialli scandinavi sono il mio pane quotidiano. Li amo alla follia, li leggerei di continuo senza mai stancarmi e ogni volta che scopro un nuovo autore sento quel brivido di eccitazione inconfondibile. Pura elettricità.
Ricordo che una volta una mia cara amica mi disse “sai, quando ti immagino, ti immagino seduta a leggere un libro di Jo Nesbø”. Credo che questa immagine decisamente poetica possa ben descrivere la mia passione universalmente nota per questo filone letterario (e per Nesbø, ma questa è un’altra storia).
Elettricità, dicevo, che ho provato anche quando ho scovato “L’angelo delle nevi” di Ragnar Jonasson, primo autore islandese in assoluto che io avessi mai letto.
Conosco l’Islanda, pur non essendoci mai stata, perché una delle mie migliori amiche dell’Erasmus è islandese. Eva Ròs – questo il suo nome – mi ha insegnato, con una rassegnazione disarmante, che in quella piccola isola che è l’Islanda si conoscono un po’ tutti. Ovviamente, la mia amica mi ha confessato di conoscere anche Ragnar Jonasson: guarda un po', è stato suo professore all’università di Reykjavík.
Ne “L’angelo delle nevi” il paesaggio è il grande fiordo di Siglufjorour (uno dei punti più a nord dell’Islanda) e l’aspro territorio islandese. Il vento e la neve incessanti, la spiaggia sassosa.
In questa cittadina imperversa l’inverno, tutto sembra calmo, quasi piatto. Improvvisamente, una giovane donna viene ritrovata in un giardino priva di sensi, in una pozza di sangue. Quasi nello stesso momento, un vecchio scrittore muore nel teatro locale in seguito a una caduta. Ari Þór, ex studente di teologia diventato poliziotto quasi per caso, dovrà occuparsi dell’indagine, tra la nostalgia della fidanzata rimasta a Reykjavík e la diffidenza di una comunità che fa fatica ad accoglierlo.
Un romanzo a tratti deludente, a tratti affascinante. L’atmosfera è quella che mi ricorda da sempre i paesi scandinavi: non il gelo, bensì il tepore delle case, le luci calde e il legno. Ecco, questo libro mi porta lì, all’Islanda, terra ancora da visitare e da scoprire, ma della quale tanto ho sentito parlare.
Deludente, perché la storia non sembra decollare mai, i personaggi non sono caratterizzanti a sufficienza e, a mio avviso, sono troppo bidimensionali. Mi rendo conto di essere pignola sulla caratterizzazione dei personaggi e so anche che questo non è il punto forte degli scrittori scandinavi, ma, in questo caso, la caratterizzazione mi è sembrata proprio scarsa, ecco.
Perlomeno, il protagonista è in linea con gli standard del noir scandinavo: logorato da preoccupazioni e lungi dall'essere eroico. Ari Þór è umano. Non è un personaggio con il quale ho empatizzato più di tanto, però: vuole ricordare Harry Hole, ma non ci riesce. Senza tutta quella disperazione e quella genialità maledetta, non ci si avvicina nemmeno.
Jonasson è un autore che ho ripreso, in seguito, leggendo altri suoi libri.
L’ambientazione resta comunque affascinante, anche se in questo caso (e direi, anche in tutti gli altri) questa prevale decisamente sullo stile. E anche sulla trama, di per sé superflua e anche un po' confusionaria.
Poco mordente, poco fuoco, molto buio e molto ghiaccio. 0 a 0 e palla al centro. Ci riproverò.
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