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Immagine del redattoreMartina Nicelli

Kurt Wallander e l'inquietudine svedese

Aggiornamento: 20 mag 2022

Non avevo mai letto Henning Mankell, ma ho sempre voluto leggere “I cani di Riga”. Non saprei dire perché, forse per il titolo, forse per qualche consiglio che mi era stato dato in un misterioso giorno del passato. Eppure ho atteso del tempo prima di leggerlo: anche qui, chissà perché. Forse il mio subconscio mi ha suggerito di aspettare quando avrei avuto più soldi da spendere per comprare tutti i suoi libri.


“I cani di Riga” è un libro veloce e, mi viene da dire, d’altri tempi. E non è solo per la versione che ho comprato - usata, del 2004 – del romanzo. Non è un giallo nel vero senso della parola, un po' si intuisce fin dall’inizio chi potrebbe essere il colpevole, i personaggi sono pochi e le ragioni dei potenziali killer poche e facilmente intuibili. Nonostante si presenti, appunto, come un giallo, questo suo essere “anticonformista” non è tutt’altro che un difetto: la narrazione è storica, politica, incredibilmente dettagliata.


Mankell, parlando della saga con Kurt Wallander, ha più volte chiarito che il sottotitolo della serie avrebbe dovuto essere “I romanzi dell'inquietudine svedese”. L’inquietudine è insita nel poliziotto, assetato di giustizia. La domanda che pregna le pagine di questo romanzo sembra essere proprio questa: esiste una giustizia? E la giustizia, se esiste, come si manifesta? Grandi domande, queste, che Mankell e la sua pedina letteraria, Wallander, tentano di sviscerare in questo romanzo piatto, squadrato, polveroso. L'inquietudine del Nord - nazioni ordinate, di grande benessere, dotate di un forte senso di comunità- è una corrente potente nei noir di Mankell. E allora i suoi romanzi - così come quelli di Stieg Larsson - hanno molto a che fare con l’inquietudine e con la messa in discussione dell'immagine idilliaca che nel resto d'Europa si ha dei paesi del Nord.


Ci sono certi libri scritti con quella che io definisco una penna fatta di “sabbia e vento gelido”. Questo – così come i romanzi di Jo Nesbø, ma anche i fantasy di Robin Hobb o “Dio di illusioni” di Donna Tartt – è un romanzo arido: non di contenuti, ma di speranza. E’ un romanzo sconsolato, scevro di bellezza. Inquieto.


Di solito, questo tipo di romanzi sono anche molto scorrevoli. “I cani di Riga” non fa eccezione: mi stupirei se impiegaste più di una decina di giorni per terminarlo. Non sono romanzi per tutti, però: bisogna creare una connessione con la storia e un legame con il Kurt Wallander di turno. Ad esempio, io non ho capito subito di essere simile a lui: ho dovuto attendere un capitolo nel quale Wallander si lamentava del poco tempo che riusciva a dedicare all’anziano padre, scorbutico e acido. Quando l’ho letto mi sono immediatamente vista lì, in Svezia, nel corpo di questo uomo di mezza età e nella sua nostalgia per tutte le cose che non riesce a fare e che non sarà mai in grado di fare.

I libri di Mankell sanno evidenziare la tensione che esiste tra la vita che viviamo e quella che vorremmo vivere, tra tutto quello che facciamo – e che ci sembra tanto, troppo, non riusciamo a stargli dietro – e quello che ci lasciamo sfuggire.


“I cani di Riga” non è solo un poliziesco: è un romanzo d'inquietudine, e cospirazioni, miseria e segreti la fanno da padroni. I panorami dei vicoli di Riga, tetri e indifferenti, sono stati dipinti perfettamente dalle pennellate naif dell'autore, così come il senso di inadeguatezza di Wallander, nei suoi dubbi umani e nelle sue notti insonni, trascorse in compagnia di un bicchiere di whisky e delle proprie paure.




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