Milano, sabato sera. Anzi, è notte ormai, ed è già domenica. Automaticamente pensi che domani dovrai tornare al lavoro. Per una manciata di istanti valuti la possibilità di licenziarti, ma poi lasci perdere, come in uno scambio ben collaudato di battute tra vecchi amici. Ti viene anche in mente che la metro ha già fatto la sua ultima corsa da un pezzo, e che lo stipendio di quel lavoro che fino a un secondo prima volevi lasciare ti servirà per pagare il taxi che dovrai prendere.
Ti avevano avvertita che davanti al locale ci sarebbe stata la fila: certo non ne immaginavi tanta. Non sapete esattamente perché siete lì, forse qualcuno vi aveva suggerito quel posto perché ci fanno un bel karaoke, forse sei addirittura tu la causa di quella serata e nemmeno te lo ricordi, ma sei anche una a cui non piace discutere; quindi, ti armi di pazienza e ti metti in fila, sperando che l’attesa non sia troppa.
Vi guardate intorno. La fila scorre, arrivate quasi all’ingresso. Senti il buttafuori chiedere al gruppetto davanti al tuo quanti sono. “Quante ragazze?” domanda distratto, quasi da prassi. Evidentemente tre è un numero sufficiente, perché il gruppetto entra.
Ecco che, arrivate davanti all’ingresso, si svela l’arcano mistero. L’offerta, scritta a caratteri cubitali davanti l’entrata del locale, recita “Stasera le donne non pagano!”. Sei ancora interdetta, quando il buttafuori ti ripete la stessa domanda “Quante ragazze?”. E’ inevitabile, sbotti, chiedi spiegazioni. Lui, evidentemente, non è abituato a sentirsi rivolgere delle domande, perché sulle prime non ti dice niente. Poi, ridacchiando, ti sussurra che “I maschi mica ci vengono in un locale dove ci sono poche femmine. Allora, volete entrare o no?”.
Di discoteche e locali che offrono alle donne l’ingresso gratuito ce ne sono a migliaia. Di posti che fanno una “selezione all’ingresso” basata sul genere, ancora di più.
Qui il sinallagma (dal gr. συνάλλαγμα “accordo, contratto”) non esiste: usufruisco del prodotto ma non scambio niente, non pago. E’ chiaro, qui il prodotto sono io: sono un’offerta al pubblico, sono la merce che ci si aspetta di trovare il sabato sera quando si va a ballare.
Parlando di categorie ridotte a meri “prodotti”, mi viene in mente un libro che lessi qualche tempo fa. Pescato da una bancarella dell’usato, le pagine ingiallite e friabili e il prezzo ancora in lire.
Mi attirò il titolo, uno slogan d’altri tempi. Sto parlando di “La donna non è gente” di Armanda Guiducci, pubblicato nel 1977.
“La donna non è gente” è un proverbio contadino che crudelmente significa: la donna non conta, non è genere umano che meriti un segno nella storia. Cioè, è nessuno. Da questo detto si dipana il libro di Armanda Guiducci, nel quale la scrittrice tra le tante vite femminili anonime, emarginate, ha cercato di coglierne nove, con amara fedeltà. Le contadine protagoniste di queste storie, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, parlano da diverse regioni d’Italia, dal Piemonte alla Calabria, dalla Sicilia alla Lombardia.
Armanda Guiducci si chiedeva: "Cosa pensano le donne dal viso e dalle mani rugose?" Oggi, rileggendo i suoi scritti, mi chiedo: cosa sente chi ancora oggi, nel 2023, si muove lent* ai margini del mondo?
Cosa prova, quando si sente trattat* come un vero e proprio prodotto industriale, fabbricat* e conservat* solo per compiacere? Quando una cultura sibillina, feroce e discriminatoria concede un ingresso prioritario, regala un servizio, e non pretende nulla in cambio?
“La donna non è gente” parla di dignità umane oppresse. Ieri come oggi, tra oppressori e oppressi e nuove forme di oppressione. Armanda Guiducci ci racconta di donne, sole anche nelle loro stesse case. Attraverso i suoi occhi meravigliati e scettici, da “straniera di città”, scopriamo leggende contadine, violenze, storie di abbandoni e di grandi amori, povertà ed emarginazione; parliamo con curatrici, levatrici, braccianti, madri e non, depositarie di leggende antiche. Quasi tutte si esprimono in un dialetto stretto e vivo.
Donne “prive di risonanza”, colpite dal lutto dell’esclusione e la cui esistenza “si è consumata negli spazi morti (per la cultura dominante, urbana e industriale) del satellite contadino”. La scrittrice definisce tale condizione come “antifemminismo contadino”, per colpa del quale la massa contadina povera è stata la “grande esclusa” dal processo di formazione della società moderna basata sulle scienze, le tecnologie e il lavoro industriale. Una realtà che non muta, perché da secoli ha fondato il suo equilibrio sul vuoto, sulla mancanza di potere, sulla povertà e sull’emarginazione.
Perché il libro di Armanda Guiducci, scritto sul finire degli anni Settanta, è ancora così attuale oggi?
Le radici dell’esclusione sono, ancora oggi, molto forti. Ci sono voci ignorate, calpestate. Ci sono vite che vivono ai margini del mondo (che spesso sono i margini delle città, delle scuole, dei posti di lavoro), fuori dai ritmi della società. Un universo di rabbia, speranza e rivolta che sta emergendo dalle nostre comunità e che prima o poi tutt* dovranno riconoscere e vedere.
Se la donna, per il mondo contadino, non è mai stata “gente” (e, dunque, qualcuno), non è difficile capire come mai, oggi, la oggettivizzazione di diverse categorie umane e il loro valore individuato sempre in relazione ad altro, per compiacere qualcun altro, siano ancora così diffusi. Conclude Armanda Guiducci “Come si può dimenticare che la metà del mondo è donna e, di questa metà, la più grande parte è quella che conduce la sua esistenza fuori del ritmo industriale e delle città […]. E’ questa immensità silenziosa del destino femminile che mi colpisce, quel destino senza voce. […] Il circolo vizioso della povertà economica e della subalternità femminile esclude ancora le escluse dalle stesse possibilità di liberazione che si vanno manifestando nel mondo attuale.” Queste lotte sono già un privilegio sociale, quasi un “lusso” da dominanti.
Rompere quel cerchio di miserie ed esclusione sarebbe il primo compito del femminismo, propone la scrittrice; tagliare le radici di una mercificazione spicciola, da sabato sera, quella che fa esclamare che sì, noi “non siamo gente”, è decisamente necessario. Per tutt*.
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