Era da troppo tempo che non leggevo un giallo scandinavo. Non so cosa mi è preso, ma ultimamente le mie letture hanno completamente virato su altre tematiche e altri lidi. Non so cosa mi è preso, in effetti: il giallo scandinavo mi mancava. Io lo associo al Negroni: buoni gli altri cocktail, ma alla fine della fiera finisco sempre per tornare da lui. Sarà che l’amarezza fa da trait d’union?
Da secoli volevo leggere qualcosa di Anne Holt. Continuavo a leggere il suo nome sugli scaffali delle librerie, e ogni volta la scartavo per leggere qualcos’altro. A Natale mi sono regalata uno dei suoi romanzi, “L’unico figlio”. Senza un motivo particolare, anzi sì, forse uno c’era: a morire era l’educatrice di una casa famiglia, si leggeva bene sulla quarta di copertina. Agnes Vestavik, educatrice come molte di quelle che ho conosciuto durante la mia vita, per lavoro e per scelte fatte da conoscenti e amici.
La storia comincia con l'arrivo di un ragazzino in una casa famiglia alle porte di Oslo. Olav è un dodicenne problematico, sembra infinitamente più duro e indocile degli altri ragazzini e tutti i tentativi di domarlo sembrano fallire. Il romanzo si sviluppa su due filoni narrativi: l’omicidio di Agnes Vestavik, uccisa con un coltello da cucina nel suo ufficio e la scomparsa di Olav dopo un litigio avuto proprio con Agnes. La polizia di Oslo tenta di far luce sul caso, mandando in campo l'ispettore capo Hanne Wilhelmsen e il suo assistente Billy T.
Il libro affronta diverse tematiche: il disagio sociale, su tutte. Sarà la lunghezza esigua (circa 200 pagine), sarà la scrittura fluida della Holt, ma il tema mi sembra che sia stato affrontato in modo abbastanza superficiale. Così come le personalità dei vari personaggi, quasi eteree e portate avanti per stereotipi. Questo è uno di quei libri dove, davvero, 200 o 300 pagine in più avrebbero fatto la differenza. So che sono tante, sto chiedendo alla Holt di scrivere il doppio di quanto ha fatto, ma mentre alcuni libri hanno capitoli su capitoli totalmente superflui, qua la storia sembra troppo semplice.
Un libricino carino, che consiglierei al passeggero di turno se lavorassi nella libreria di un aeroporto e mi venisse chiesta una lettura veloce ma godibile. E non è un complimento. Certo, tutto il macro-tema “scandinavo” che tanto mi era mancato l’ho ritrovato: quella sovrapposizione tra l’io e il concetto di famiglia, l’ordine – di ragionamenti, burocrazia e narrazione. Mi sono mancati, però, il buio, il cinismo, le profondità umane: elementi imprescindibili, per quanto mi riguarda, e che mi hanno fatta appassionare al genere.
Eppure, è la storia di un’assistente sociale, di un bambino affetto da un problema di sviluppo cognitivo (anche qui, non spiegato benissimo dalla Holt, devo dire) che viene “strappato” dalle braccia della madre che, dal canto suo, è un’alcolizzata e una drogata che vive in un buco di casa nel quartiere più degradato di Oslo, eppure niente di tutto questo buio è riuscito a scavalcare le pagine del libro e a raggiungermi.
Sarà che è il periodo delle riletture, sarà che adoro, amo, venero Jo Nesbø, sarà la delusione che “L’unico figlio” di Anne Holt mi ha procurato, chissà. Forse il prossimo giallo scandinavo sarà proprio una rilettura dei capolavori del mio norvegese preferito…
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