Riprendere i mezzi pubblici per andare al lavoro, a parte tutte le problematiche del caso, non è poi così male. Se non altro si vedono outfit da copiare – perlomeno, a Milano con la settimana della moda[1]. Si intercettano conversazioni di vita vera che, a parte nelle spiagge italiane gremite di bagnanti, difficilmente si ha modo di ascoltare. E poi si riprende a leggere. Finalmente, perché anche un’estate frenetica come la mia, ad un certo punto, ha sentito la mancanza di un buon libro.
Devo dire che, per riprendermi, mi sono un po' accontentata. A volte succede, quando accetto di non aver bisogno di un capolavoro per sopravvivere. E allora ho deciso di comprare un Newton Compton, uno di quelli dalla rilegatura gialla e le scritte che sembrano un po' quei Word Art che andavano tanto di moda alle scuole medie.
Non conoscevo Jenny Blackhurst, non l’avevo mai sentita nominare. Nel mattone della Newton Compton ci sono tre titoli, per un totale di circa settecento pagine. Anche quelli, mai sentiti.
A volte, fare un salto nel buio è incredibilmente soddisfacente. Basti pensare a “La famiglia Aubrey” di Rebecca West: quando l’ho comprato, non ho fatto molti ragionamenti, se non che era troppo tempo che non leggevo una saga familiare e ne sentivo la necessità. E’ stato bellissimo. Ma, se per la West è stato così, non posso dire lo stesso per il mattone giallo e nero che ha accompagnato buona parte delle mie mattine settembrine.
E’ stata, semplicemente, una lettura. Che né mi ha dato, né mi ha tolto.
Intanto, mi sono fermata al primo dei tre titoli, “Era una famiglia tranquilla”. Il titolo è talmente neutro da avermi fatto pensare, inizialmente, a una possibile chicca per un gruppo ristretto di intenditori. In realtà, ora che ho terminato la lettura del romanzo ho capito che, oltre ad essere davvero banale – aggettivo che, dunque, in questo caso si tramuta in difetto -, non c’entra assolutamente nulla con la storia che viene raccontata.
Sostanzialmente, la protagonista (una certa Susan che ha cambiato identità e ora si chiama Emma) parla di sé in prima persona, è totalmente in balia degli eventi ed è ovviamente affascinante anche se viene continuamente descritta come una sciattona. Il fatto che parli di sé in prima persona non è un male a priori: anche “La Trilogia dei Lungavista” è scritta secondo questo schema narrativo, eppure è un capolavoro. Il problema vero che più mi ha afflitta durante la lettura è stata l’estrema banalità delle osservazioni di Susan e il suo modo infantile di ragionare. Non so perché certi autori siano convinti che il passaggio dal narratore terzo all’io debba essere per forza caratterizzato da un impoverimento stilistico. Non posso credere che qualcuno ragioni davvero in questo modo. O perlomeno, certamente qualcuno lo fa, ma per favore, che non sia il protagonista di un libro.
Mi sono fermata al primo dei tre titoli – quindi, a rigor di logica, non ho lasciato una lettura incompiuta, giacché i tre libri non solo sono distinti, ma sono totalmente scollegati l’uno dall’altro – perché non avrei potuto sopportare altra noia e, soprattutto, altri improperi da me stessa alla Blackhurst e alla sua banalità. Di scrittura, di titoli e di personaggi. Peraltro, è evidente che la storia sia finta: è uno di quei casi in cui quello che viene raccontato non può davvero essere successo nella realtà. E’ inconcepibile, semplicemente, un misto tra uno scandalo di cronaca nera, “Orange is the new black” e le nostrane Bestie di Satana. Il tutto rende il risultato un po' grottesco. Questo, forse, è il peggior difetto del libro.
Cara Jenny Blackhurst, io non so se leggerò gli altri due titoli (per la cronaca, “La paziente perfetta” e “La figlia adottiva”). Se lo farò, non avrò aspettative, data la batosta che mi hai appena regalato. Per compiacermi non basta un’ambientazione che strizza l’occhio al british e un’indagine, se poi questa è malamente assortita. Mi conosco: probabilmente li leggerò comunque per capire se la mia intuizione è stata corretta, oppure se “Era una famiglia tranquilla” è stato solo un caso. In ogni caso, ti consiglio di dare ai tuoi personaggi dei nomi un po' meno inflazionati. Tra Mark, Matt, Luke e Robert, ho finito per fare una grande confusione.
[1] Tanto, la mattina dopo deciderò, comunque, di vestirmi con la solita giacca e i pantaloni lisi.
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