A tutti coloro che amano la montagna. La mia vita dopo il Monte Bianco
- Martina Nicelli

- 3 giorni fa
- Tempo di lettura: 3 min

Tre mesi a leggere libri di montagna, tre mesi di respiro e proseguimento di un’estate che ha visto protagonista il Monte Bianco in tutte le sue sfumature, quella italiana, svizzera e la bellissima sponda francese. Da La Fouly a Courmayeur, questa è stata solo l'ultima delle mie peripezie, forse la più faticosa ma, come sempre accade, quella che mi ha lasciato il ricordo più intenso.
Leggere romanzi non è male, ma non è la cura quando hai così tanta nostalgia dei monti.
E siccome solo in quella libertà ti senti libero, e solo in quella natura ritorni ad essere un po' bambino e un po' animale e un po’ primitivo (come direbbe il mitico Paolo Bruni), è logico nient'altro ti soddisfi: quello di cui hai bisogno è ricreare quel mondo, tanto immutabile nella sua casualità e preciso nello scandire del tempo, quasi monastico, che solo l'alta quota sa darti.
Ho sempre associato il rientro da lunghe esperienze di montagna a quello che dovevano aver provato i reduci dalla guerra o, senza voler fare paragoni troppo arditi, allo smarrimento dell’italiano che torna in patria per le festività natalizie, dove tutto odora di una nuova e antica lingua, di consuetudini e vita insofferente.
E così ho iniziato, inesorabilmente sul finire del mese di agosto, spinta dall’intuizione ancestrale dell’insoddisfazione cronica per qualunque lettura alla quale mi stavo approcciando.
Leggere Le mie montagne di Walter Bonatti, Freney 1961 di Marco Albino Ferrari e La via della montagna di Alberto Trevellin è stato come percorrere un’unica lunga cresta che unisce l’alpinismo epico, quello drammatico e quello intimo.
Bonatti apre il cammino con il suo spirito indomito: le sue montagne non sono solo vette, ma luoghi dove l’uomo si misura con sé stesso, tra ostinazione, solitudine e verità. Neanche a dirlo, mi sono perdutamente innamorata della sua schiettezza, di parole e di emozioni e, allo stesso tempo, della sua capacità di dipingere le creste e le pareti con la stessa dolcezza di una ninna nanna. Ferrari raccoglie quel filo e lo porta nella notte terribile del Freney, mostrando il rovescio dell’avventura: la fragilità, la responsabilità, il prezzo che la montagna talvolta presenta con spietata lucidità. Trevellin, infine, ci accompagna lungo un sentiero completamente diverso: quello della montagna quotidiana, fatta di lentezza, ascolto, relazioni, un luogo che non si conquista ma si abita, che non chiede eroismi ma presenza.

“Dedico questo libro a tutti coloro che amano la montagna: ai grandi alpinisti, a coloro ai quali basta guardarla da lontano, a chi le fa visita con costanza, a chi ama soggiornare tra le sue valli, a chi trova momenti di pace e spiritualità nel fitto dei boschi o sulle cime assolate”: è con questa premessa che Trevellin ci introduce al suo saggio, una dedica che abbraccia tutti – ma proprio tutti – i figli della montagna. Non importa che figlio sei: questo è anche per te, e non importa se ti chiami Walter Bonatti, o se sei uno sconosciuto come tanti. La via della montagna – che porta con sé il cammino, l’ascesa e la discesa, la paura della morta, la vetta obiettivo, la solitudine e la compagnia, il silenzio, il mistero - è anche per te.

Messi insieme, questi tre libri diventano un’unica grande lezione: la montagna non è mai una sola.
È sfida, è tragedia, è rifugio; è prova e guarigione; è silenzio che tempra e abisso che inghiotte; è un maestro severo ma giusto.
Io voglio credere che la montagna sia, sempre, anche una grande storia di amicizia, intesa nel senso più omnicomprensivo del termine, verso cose inanimate o animate che siano, verso le persone; sempre Trevellin ci dice che “Vedere le spalle è un fatto tipico dell’uomo in cammino, che ha sempre davanti a sé qualcun altro, qualcuno da seguire”. Questo, in fin dei conti, mi fa sentire meno sola, pur sulla cima, pur nelle silenziose notti stellate.



Commenti