Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con "Letteratour. Un tour nel mondo della letteratura". Lo trovate al seguente link: https://www.letteratour.it/recensioni/i-buddenbrook-a-spasso-con-tony.asp
Ho sempre amato i libri tedeschi, un po' perché la Germania è la mia seconda casa, un po' perché la loro letteratura mi somiglia: un macigno, ricca di dettagli, a volte un po' noiosa, sempre attratta dai lati più umani delle persone. Romanzo pubblicato nel 1901, “I Buddenbrook”, è un libro tedesco fino al midollo.
Dopo un inizio un po' incerto, mi ha conquistata.
Con “I Buddenbrook” mi è successa una cosa che ultimamente mi accade con pochi libri. Quando l’ho dovuto abbandonare a causa delle vacanze estive che si stavano avvicinando (sì, non riesco a staccare i libri dal luogo in cui li leggo. “I Buddenbrook” erano il romanzo delle mie mattine e dei ritorni in metro infiniti. L’avevo iniziato lì, e dovevo finirlo allo stesso modo. Era chiaro che non potessi assolutamente portarmelo in spiaggia), ho pensato che sarebbe stato un peccato. Un peccato, perché sapevo che Tony mi sarebbe mancata, che non avrei più sentito parlare di Lubecca per qualche settimana e che le storie della famiglia Buddenbrook si sarebbero congelate per qualche tempo, immobili nello spazio tra la vita reale e tutti gli altri mondi possibili. Sono un’amante delle saghe familiari proprio per questo motivo: ti prendono e non ti lasciano più. Di solito con me funziona. Prendermi per sfinimento, intendo. E quindi ad un certo punto, al sole della Calabria, mentre leggevo un’altra saga familiare (“E’ tempo di ricominciare”, della tedesca (ancora?!) Carmen Korn), ho pensato con rammarico che avrei potuto combattere un po' di più contro me stessa e la mia pignoleria, e che avrei potuto finire i miei Buddenbrook. Più di tutti, sentivo la mancanza di Tony: personaggio che aveva inizialmente tutte le caratteristiche per essermi insopportabile (personaggio femminile, e in quanto tale spesso caratterizzato male, purtroppo, capricciosa, esageratamente sfortunata), un’oca, come lei stessa si definisce nel corso del romanzo, alla fine ha finito per essere il mio personaggio preferito. Una strenua paladina dei valori borghesi, capace di affrontare due divorzi e la distruzione di una famiglia intera. Mica poco. Testarda, concentrata su sé stessa q.b. da infischiarsene del nome della ditta Buddenbrook e sposare una dopo l’altra due losche figure ottocentesche (uno un dilapidatore di patrimoni, l’altro un infedele e per di più tirchio). Amante di Travemunde e della sua gente semplice, delle tradizioni e della signorilità. Teatrale tanto da essere buffa. Devota.
Ma di cosa parla “I Buddenbrook”?
“I Buddenbrook”, romanzo più famoso del tedesco Thomas Mann (premio Nobel nel 1929), narra l’ascesa e il declino attraverso quattro generazioni di una famiglia della borghesia mercantile di Lubecca nel XIX secolo. Titolari di una ditta, i Buddenbrook hanno costruito la propria fortuna sull’etica del profitto e la disciplina del lavoro. La famiglia Buddenbrook è una famiglia stimata dalla società, conosciuta per essere retta e decorosa. Tuttavia, ad un certo punto cominciano ad insinuarsi lentamente i segni del disfacimento, finanziario e morale. La decadenza dei Buddenbrook, in cui Mann ha tratteggiato l’essenza dello spirito borghese europeo, diventa lo specchio della crisi dell’umanesimo occidentale. La narrazione di Mann è di una sottigliezza psicologica incomparabile: egli tratteggia nascite, amori, matrimoni, illusioni e delusioni, conflitti, dissesti e rovesci economici e politici, malattie e morti con ricchezza di dettagli e uno sguardo attento all’animo umano in tutte le sue sfumature.
“I Buddenbrook” rappresenta decisamente un esempio, se non l’esempio, della narrativa realistica dell’Ottocento.
“I Buddenbrook” è un romanzo che risponde ai canoni naturalisti: carico di dettagli, mette in risalto determinate peculiarità dei personaggi che si ripeteranno nel corso del romanzo e che aiuteranno il lettore a identificarli. Questa ricchezza di dettagli può rendere la lettura meno scorrevole, più lenta: si sa, è tipico dei romanzi nordici (generalmente intesi). Concentrarsi su dettagli insignificanti, che non porteranno nulla di più alla storia. A me questa caratteristica piace da impazzire: sarà per questo che sono sempre distratta.
La decadenza della famiglia Buddenbrook è del tutto incentrata su motivazioni psicologiche. Centrale è infatti il contrasto tra passione e ragione: i discendenti del nonno Johann Buddenbrook - di stampo umanista e illuminista, uomo che incarna il perfetto equilibrio psicologico – non riescono a districarsi tra gli eccessi di razionalità (rappresentati da Thomas) e quelli di irrazionalità (l’altro fratello Buddenbrook, Christian). Questo scontro genererà una serie di eventi che porteranno la ditta familiare a una graduale decadenza.
La trama è praticamente inesistente, trattandosi appunto di una saga familiare dove gli eventi più importanti sono dati da nascite, morti e matrimoni. La trama sono i personaggi stessi, con le loro caratteristiche e le loro relazioni. Anche il lato economico gioca un ruolo chiave nella narrazione, soprattutto per merito dell'attività svolta dai Buddenbrook stessi. La loro natura di commercianti viene continuamente evidenziata nel romanzo: basti pensare che per loro la più grande vergogna, lo scempio insanabile, è la bancarotta («[...] "bancarotta"... era più atroce della morte, significava disordine, sfacelo, rovina, onta, vergogna, disperazione, miseria...»).
Ho adorato praticamente tutti i tratti stilistici della scrittura di Mann. La presenza di tanti personaggi secondari, a volte poco più di comparse, non mi ha infastidita, anzi, mi ha permesso di leggere molte più descrizioni, immaginare molti più mondi e storie. Tanto si capisce quando un personaggio non supererà la pagina, dai. Se non vi interessa basta saltarla. Amo, adoro alla follia, l’utilizzo spropositato di lunghissime subordinate ad interrompere le frasi principali. Voi non provate mai una soddisfazione impareggiabile quando riuscite a dare un senso a un intero, lunghissimo paragrafo, senza aver utilizzato punti? Io sì, e non me ne vergogno. Chi non sa far stare in piedi delle subordinate non sa scrivere, punto.
Infine, ho amato “I Buddenbrook” perché è un romanzo ambientato a Lubecca. Ci sono stata, e per questo la lettura mi sembra più vera. Lubecca, poi, è una città anseatica come la mia Amburgo, e anche se non ho ancora capito bene cosa c’entri con il mio grado di apprezzamento, di sicuro c’entra qualcosa.
Ah, dimenticavo, nel libro c’è un sacco di filosofia. Beh, non tanta come al liceo, però c’è. C’è soprattutto tanto Schopenauer, il cui pensiero conquista il capofamiglia Tom nel suo momento più buio. Egli si imbatte nelle pagine de “Il mondo come volontà e rappresentazione”, dove scopre il concetto di diritto alla sofferenza dell'uomo, per la natura stessa del mondo. Questa idea costituisce una liberazione per Tom, che si era sempre vergognato dei momenti di debolezza, celandoli dietro una maschera di tranquillità. Tom Buddenbrook abbraccia così il pensiero di Schopenhauer, rendendosi conto dell'insensatezza della vita e dell'inutilità del corpo, dell'organismo, prigione dell'io. Di più non so dirvi, perché filosofia non è mai stata la mia materia. Accontentatevi.
Ho tanto pregustato queste gioie, ma come sempre, l’immaginarsele è stata la parte migliore, perché il bene arriva sempre troppo tardi, diventa realtà troppo tardi, quando non si è più capaci di goderne.
“I Buddenbrook” è un romanzo triste, sconfitto, così modellato sulla realtà da sembrare quasi la storia di cronaca quotidiana che leggi la mattina sul giornale mentre vai al lavoro. Non è un romanzo per tutti, eppure viene molto letto in quanto pilastro della letteratura tedesca. Chi si è approcciato alla storia in modo superficiale e forzato vi dirà che non gli è piaciuto, che ci sono più aspetti negativi che positivi. Chi, invece, lo ha scelto come passatempo, vi dirà che essere il confidente di Tony Buddenbrook per cinquecento pagine non è poi così male. Basta non lasciarsi trascinare giù con lei, perché alla fine anche i migliori cedono. Anche se, una gita a Travemunde…
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