Perché si punisce? Prima di rispondere a questa domanda è utile sottolineare che la funzione della pena è considerata triplice dalla dottrina maggioritaria.
Nello scenario dottrinale e filosofico sono state avanzate numerose teorie per giustificare la pena, che possono essere ricondotte, essenzialmente, a tre categorie.
Le teorie retributive vedono nella pena il corrispettivo del reato. Esse sono concezioni che guardano indietro rispetto al momento di inflizione della pena, cioè al reato. La pena può essere interpretata in questo modo: al male del reato deve essere fatto seguire il male della punizione. In particolare, la pena ha una funzione molto importante, perché serve a ristabilire moralmente la situazione anteriore al male compiuto. Come affermato poco sopra, le teorie retributive della pena guardano solamente al passato, e per passato si intende il momento nel quale il reato è stato commesso. Non considerando di alcun pregio uno sguardo rivolto al futuro del condannato, esse non hanno di conseguenza alcun interesse per un percorso rieducativo del reo.
La pena serve a ristabilire moralmente la situazione anteriore al male compiuto. A questo proposito, sono state sviluppate la teoria della retribuzione morale e la teoria della retribuzione giuridica.
La prima, sostenuta tra i tanti dal filosofo Immanuel Kant, sostiene che la retribuzione del colpevole sia un’esigenza che trova in sé la sua giustificazione, senza bisogno di essere ricercata in qualsiasi utilità esterna. In poche parole, la sua giustificazione ultima risiederebbe nella antica legge del taglione e quindi nella regola “occhio per occhio dente per dente”. Questa teoria è anche definita “assoluta”, perché, trovando in se stessa la sua giustificazione, è svincolata da qualunque finalità ulteriore e si dà per presupposta. La funzione afflittiva o retributiva è messa in evidenza ancora oggi da alcuni autori come la prima e la più importante delle funzioni del diritto penale e della pena in genere. Per comprendere l’idea di retribuzione morale solitamente si fa riferimento all’esempio dell’isola di Kant, il quale recita se tutti gli abitanti di un’isola decidessero di separarsi e di disperdersi per il mondo, dovrebbe prima essere giustiziato l’ultimo assassino che si trovi in prigione, affinché a ciascuno tocchi ciò che i suoi atti meritano e la colpa del crimine non resti impressa sul popolo, che, non avendo reclamato la punizione, potrebbe essere considerato responsabile di questa pubblica lesione della giustizia.
Secondo una concezione retributiva e giuridica della pena, invece, quest’ultima serve per ripristinare la legalità violata; la pena cioè si giustifica per una ragione tutta interna all’ordinamento giuridico, il quale dovrebbe garantire sé stesso punendo coloro che non ne seguono le norme. George Wilhelm Friedrich Hegel, sostenitore di questa teoria, affermò che la pena è la rimozione del delitto e in tal modo la ricostituzione del diritto. La retribuzione giuridica individua il fondamento della pena non nella coscienza umana, bensì nell’ordinamento giuridico, con la conseguenza che la sanzione non serve solo a "retribuire" il male commesso, ma anche a riaffermare l’autorità della legge che è fonte della sanzione stessa.
La pena come retribuzione è stata fortemente criticata, soprattutto dagli ordinamenti più moderni: essa non sarebbe altro che una vendetta, e una simile concezione dovrebbe essere bandita da un codice penale evoluto. Il rischio è quello che le sanzioni penali possano diventare irrazionali e incontrollabili. Un’altra critica di particolare pregio ha sostenuto che, posto che la pena è un male, reagire ad un male commesso con un altro male non potrà portare alcun beneficio alla società.
A seguito della presa di coscienza che il crimine è espressione di un male non solo del singolo ma, in termini più generali, della società, si è avvertita nel periodo Illuminista la necessità di distogliere non più solo il singolo, ma tutti i consociati dal compiere attività criminose. La pena ha un fondamento utilitaristico, perché mira a distogliere i consociati dal compiere atti criminosi.
Secondo questo ordine di teorie, definite come teorie preventive, la pena è uno strumento che dovrebbe suscitare timore, e per questo motivo la stessa andrebbe a scongiurare la commissione di altri reati. A differenza delle teorie retributive, queste si dice che guardino “avanti”, cioè alle conseguenze dell’inflizione della pena. Le teorie preventive si suddividono, in base all’angolo prospettico cui guardano, in teorie di prevenzione generale e di prevenzione speciale. Le prime ritengono che la previsione della norma incriminatrice dissuada la collettività dalla commissione del reato. Quelle che parlano di prevenzione speciale, invece, si riferiscono all’idea che l’applicazione della pena potrebbe prevenire la commissione di altri reati da parte del soggetto a cui la pena viene applicata e andare, cioè, a diminuire il pericolo di recidiva.
La critica più importante alla teoria della prevenzione è quella per cui tale funzione -di prevenzione, appunto- è tipica anche di altre sanzioni, come quelle civili. Dal punto di vista umano, poi, si è detto che essa tratti l’uomo come un animale, perché lo considera “come quando si alza un bastone verso un cane” e quindi “la persona umana viene trattata anziché col rispetto dovuto, proprio come si tratta un cane”. Inoltre, queste teorie sono state criticate anche e soprattutto da un punto di vista prettamente psicologico: in certe categorie di soggetti, infatti, la pena spinge inconsciamente verso il delitto. La spinta a effettuare azioni criminali può essere radicata dentro un individuo solo perché le azioni sono tali, e cioè per il solo gusto di violare la legge. Altri ancora, invece, possono essere indotti a delinquere senza curarsi della possibile sanzione.
Secondo quelle che vengono definite come teorie rieducative, la pena si trasforma in un trattamento terapeutico individualizzante, non commisurato alla gravità del reato, bensì rapportato alla personalità del reo. La pena quindi dovrebbe essere applicata fino a quando le esigenze terapeutiche perdurino. Per le teorie rieducative fondamentali sono la rieducazione e la correzione dei comportamenti del reo.
L’art. 27 Cost. sancisce espressamente che le pene debbano assolvere alla funzione di rieducare il condannato. Questa funzione si collega con quella di prevenzione speciale, in quanto educare il singolo equivale anche a prevenire che questi commetta altri reati. Tuttavia c’è una differenza tra le due funzioni: in un’ottica rieducativa (dunque di riabilitazione del condannato) la pena di morte non è concepibile; in un ottica special-preventiva (dunque di evitare che il reo delinqua ancora) la pena di morte non solo è ammissibile, ma paradossalmente è anche la sanzione più efficace.
La funzione rieducativa è in netta antitesi rispetto alla funzione retributiva; se quest’ultima presuppone un uomo libero e responsabile delle sue azioni che va punito per il male commesso, la prima si riferisce ad un uomo che si comporta così perchè è stato condizionato dall’ambiente in cui vive, e dunque in qualche modo rieducabile e salvabile. Sostenitore delle teorie rieducative della pena è Cesare Beccaria, che verso la fine del Settecento scrive Dei delitti e delle pene, all’interno del quale spiega come la pena di morte non possa trovare alcuna cittadinanza negli ordinamenti di tipo liberale.
Contro questa tesi sono state mosse varie obiezioni. Si è detto che educare un soggetto equivale a imporgli comportamenti e mentalità che questo non ha, e lo Stato non potrebbe imporre ad un soggetto convinzioni morali o comportamenti non consoni al modo di essere del soggetto stesso.
Inoltre è stata rilevata una certa contraddittorietà: una funzione come quella del reinserimento sociale viene assolta da uno strumento che è il più antisociale per eccellenza (ossia, il carcere). La teoria può poi funzionare tutt’al più per i reati più gravi, ma non per i reati minori, per determinati reati colposi e, soprattutto, per i reati puniti con sanzioni pecuniarie.
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