Il passato mi affascina. Forse è anche per questo che non mi vedrete mai leggere un libro che parla di astronavi, quarte guerre mondiali e mondi distopici. Un Ken Follett è sicuramente un’opzione molto più accreditata. Tralasciando I pilastri della terra, tomo che ha caratterizzato i miei anni del liceo, anch’esso di una bellezza e accuratezza disarmanti, è la c.d. “Trilogia del Novecento” ad avermi rubato il cuore. La caduta dei giganti, in particolare, merita, da solo, tutta la trilogia[1].
“E così andiamo avanti, barche contro la corrente, incessantemente trascinati verso il passato”, diceva il grande Francis Scott Fitzgerald[2], e devo ammettere che questo pensiero mi ha sempre fatto un po' paura. Il passato mi affascina, dicevo, ma con gli anni ho anche cominciato a temerlo. C’è stato un periodo della mia giovinezza dove vivevo intrappolata nella nostalgia – di cosa, non lo sapevo nemmeno io. Ora va un po' meglio, anche se il vizio di guardare la mia esistenza a ritroso non mi è ancora passato.
Il passato mi affascina, e non solo il mio. Ho indagato così tanto le mie scelte trascorse che, probabilmente, se tornassi indietro non sarei in grado di scrivere la mia storia diversamente da com’è andata in questa vita. Ma non si tratta solo del mio passato. Gli oggetti hanno un passato, i luoghi hanno un passato, gli odori hanno un passato. Quante volte ho percepito questi richiami, e quante volte non sono stata in grado di afferrarli immediatamente.
Citando Follett, ho idea che questo mio pensiero di oggi non possa prescindere dai molti libri che hanno accompagnato la mia esistenza. Molti di questi erano ambientati in altre epoche[3], e a loro volta una grossa fetta nei decenni a cavallo tra il IX ed il X secolo. Che cosa mi affascini di quest’epoca, ancora non l’ho compreso appieno: saranno i bastoni da passeggio, la pelle rigorosamente bianca delle signore o l’impressione che le città si riducessero in viuzze secondarie e botteghe nei sottoscala…
Ho capito appieno fin dove quello che, col tempo, ho imparato a chiamare “sesto senso” per il passato potesse spingersi, quando mi sono trasferita in un’altra città. Questa città si chiama Amburgo, ed è una città dal passato mastodontico, ingombrante, difficile da assimilare.
Ricordo che quando passeggiai per la prima volta per il centro -o perlomeno, quello che noi italiani potremmo definire centro. A onor del vero, pur essendo così a nord, Amburgo ha, perlomeno, una piazza principale, e i confini del centro sono abbastanza delineati. Non è così ovunque: al di fuori dell’Europa prettamente continentale, è difficile imbattersi in una topografia “concentrica”. Nonostante Amburgo sia quasi in Danimarca, è una città piena di piazze. Che poi siano poco vissute a causa del freddo incredibile, questo è un altro discorso-, lasciandomi alle spalle il mio piccolo appartamento di periferia[4], pensai immediatamente che Amburgo fosse una città molto vuota. Avevo una sensazione di spazio, di silenzio. È molto difficile descrivere cosa significhi questa sensazione: è a metà tra la certezza che, allargando le braccia, non si tocchi mai nulla e la paura irrazionale di venire strappati da un momento all’altro in mille pezzi, un po' come se fossimo sulla ruota di tortura medievale.
La presenza della guerra ad Amburgo si nota soprattutto nel centro città, dove tutto è grigio, nuovo e pieno zeppo di lampioni[5]. Le altre zone, oltre a non essere state colpite in maniera massiccia dalle bombe, sono zone prettamente residenziali, dove le case vengono costruite, distrutte e ricostruite con facilità e, almeno per me, è più difficile accorgersi dei segni del tempo. Bisogna anche tenere in considerazione il fatto che Amburgo sia una città densamente popolata ma, soprattutto, vasta: chi, all’epoca della Seconda guerra mondiale, si è trasferito a vivere in campagna, non ha sentito che il tonfo lontano dei crolli degli edifici del centro città. Ai tempi, Duvenstedt era aperta campagna: oggi, se cercate su Google Maps, è indicato come un quartiere di Amburgo.
Si dice che in tutta Amburgo non sia rimasto in piedi nulla dopo i bombardamenti della Seconda guerra Mondiale, ad eccezione della chiesa di San Nicola. La sua torre gotica, maciullata come una candela accesa da ore, oggi è annerita dal fuoco delle bombe. La sua cripta ospita un museo piccolo ma molto toccante, che racconta delle incursioni aeree in città, dando un’idea delle esperienze non solo degli abitanti di Amburgo, ma anche degli stessi equipaggi dei bombardieri. Visibile dalla piazza del municipio (il Rathaus), la torre sembra vigilare su tutto e tutti, senza dare segni di cedimento. Come a dire: non scordatevi di me.
Un passato violento, uno dei tanti nel nostro continente, ma mai come ad Amburgo ho avuto l’impressione che le bombe si fossero portate via un’intera città. Più volte, ho avuto chiara l’immagine di marciapiedi divelti, delle barche che placide si cullano nelle acque fredde del lago Alster e improvvisamente affondano. Tempo fa vidi una serie tv ambientata a Berlino durante gli anni della Repubblica di Weimar: si chiamava “Babylon Berlin” e aveva come protagonista un certo ispettore di nome Gideon Rath, trasferitosi da Colonia a Berlino per indagare su un giro di estorsioni che coinvolgevano vari esponenti politici dell’epoca. La serie è ambientata nella Berlino dei ruggenti anni '20, tra locali notturni, fumo di pipe e auto di lusso, ed è proprio la città ad essere l’altra fondamentale protagonista della trama, una città rappresentata come impaziente e scintillante, che costituirà al contempo il terreno fertile per la nascita del Partito Nazionalsocialista.
“Babylon Berlin” ci descrive la Berlino degli anni ’20-’30, quella florida, dinamica e proiettata verso il futuro. Anche Amburgo era così, in quegli anni. Ce lo dice Carmen Korn, scrittrice tedesca e autrice di Figlie di una nuova erae dei due volumi successivi, È tempo di ricominciare e Aria di novità, ambientati proprio nella città anseatica. Come “La Trilogia del Novecento” di Follett, anche questi tre libri ripercorrono, attraverso le storie dei protagonisti, la storia del secolo.
Figlie di una nuova era è un libro che sa di passato, proprio come la città che gli fa da sfondo e da cuore pulsante allo stesso tempo. All’inizio della storia siamo negli anni Venti del Novecento, e Amburgo è sfavillante e rivoluzionaria.
Henny dovette attendere il transito di varie carrozze, vetture pubbliche e un paio di carrettini, prima di attraversare la Jungferstieg e raggiungere l’Alster. I giovani alberi che orlavano quel lato della strada mostravano le prime macchie verdi, il cielo grigio si andava aprendo di squarci azzurri, sugli alberi cinguettavano i passeri[6].
Lina, una delle protagoniste, che fa l’insegnante e fino a quel momento sarebbe stata costretta al nubilato, non ce la fa più, e si ribella. Kathe, giovane comunista, è sicura di non volersi sposare e di non volere figli, e lotterà per rispettare gli ideali in cui crede. Ida, costretta ad un matrimonio di convenienza, lascerà il ricchissimo marito e si traferirà da sola in una modesta pensione.
Ci sono posti che ad Amburgo non esistono più, ma che grazie ai libri della Korn possiamo scoprire. L’Alsterpavillon, ad esempio, era un elegante ristorante sulle rive dell’Alster, spazzato via dalle bombe. L’Alsterhaus, invece, esiste ancora, e con le sue vetrine luccicanti domina tutta Jungfernstieg. Ripenso spesso a come doveva essere stata la città prima di quei dieci giorni del luglio del 1943, e mi rendo conto che non lo saprò mai. Certo, potrei cercare delle foto dell’epoca, ma non sarà mai la stessa cosa. Ogni volta che camminavo per Stephansplatz, Dammtor e Kolonnaden pensavo agli appartamenti dei signori dell’alta società, ai gioiellieri e alle gelaterie che non esistono più. Certe cose, però, sono rimaste uguali, nonostante gli edifici siano stati spazzati via dal fuoco delle bombe: la zona di St. Pauli ospitava la comunità cinese dell’epoca, e la ospita tutt’ora, e Reeperbahn rimane sempre un quartiere a luci rosse, con discoteche e anfratti di dubbio gusto. Forse solo i neon luminosi sono cambiati, andando a rimpiazzare le insegne scritte a mano.
E allora, forse Francis Scott Fitzgerald aveva ragione. Andiamo avanti, ma sempre con uno sguardo indietro. E veniamo trascinati, prepotentemente, verso il punto di partenza. Mi piace l’idea che durante questo percorso, però, ognuno torna dove tutto è cominciato, sì, ma cambiato. Basti pensare ad Amburgo: se un suo abitante di fine Ottocento la vedesse oggi, probabilmente non la riconoscerebbe più. Oppure sì, scorgerebbe qualcosa delle vecchie mura delle case, dei tavoli con le tovaglie bianche e ricamate dei ristoranti e delle strade perennemente inondate dall’Elbe, e sono certa che si sentirebbe comunque a casa. Capita anche a me, quando mi imbatto in delle foto in bianco e nero del mio paese: la strada principale è diversa, tutt’intorno c’è il verde della campagna e il campanile della chiesa nuova ancora non esiste. Eppure, è tutto uguale.
[1]Per vostra fortuna, è anche il primo dei tre, quindi se non vi piace immergervi in letture che vi terranno occupati per almeno un anno, potete pure abbandonarla dopo averlo letto. Nessuno si offenderà. [2] L’aggettivo “grande” non è usato qui in modo sarcastico: so riconoscere il genio, anche quando non incontra i miei gusti. [3] La caduta dei giganti e Una fortuna pericolosa di Ken Follett, giusto per rimanere in tema. Ma anche le due trilogie della saga di Shadowhunters (nonostante il mio ribrezzo per tutto ciò che sia fantasy e teen, questi quattro libri -due devono ancora uscire- sono un piccolo gioiellino), Mrs Dalloway di Virginia Woolf, Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. [4] Abitavo ad Hasselbrook, una zona residenziale vicina all’aeroporto. [5] I lampioni non sono certamente un segno di guerra, ma il centro ne è pieno. Lampioni consumati e neri, un po' ricurvi. [6] Figlie di una nuova era, Carmen Korn, 2018, Fazi Editore, Roma, pag. 19.
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