Questa estate ho deciso di vivere un’esperienza che da tempo stavo meditando.
Io e il mio ragazzo, zaino in spalla, siamo partiti per un trekking ad anello di tre giorni sulle Dolomiti, più precisamente tra le alture del Gruppo del Catinaccio.
Vi racconto qualcosa.
Giorno 1 – Cologno Monzese – Passo Antermoia (2800 metri)
Domenica 8 agosto, sveglia alle 4 del mattino, si parte. Quattro ore di macchina per raggiungere la nostra destinazione, Mazzin in Val di Fassa. Neanche a farlo apposta, il destino ha deciso di farci partire proprio da questo paesino immerso tra le montagne, dove un anno prima, io e il mio ragazzo eravamo approdati per la nostra prima vacanza insieme.
Abbiamo lasciato la macchina in un posto improvvisato, convinti che non l’avremmo più ritrovata (spoiler: non è successo) ma incuranti di questa remota possibilità, e siamo partiti.
Il cielo non prometteva niente di buono, il meteo prevedeva temporali oramai da una settimana tanto che avevamo quasi millantato l’idea di rinunciare alla vacanza, ma comunque siamo partiti.
Momento dettagli tecnici: sono partita con il mio salito zaino rosa, pieno di bandierine e ciondoli. Durante i giorni di cammino non ho sentito particolarmente il peso, e nemmeno ho pensato di aver portato qualcosa di inutile con me. Avevo: quattro magliette tecniche, due pantaloncini, un paio di pantaloni lunghi, il pigiama, la giacca a vento, un pile e un kway, intimo q.b., il tutore per il ginocchio malandato (sigh!), le bacchette, qualche merendina secca, la borraccia, un asciugamano, un paio di infradito e un beauty striminzito (lo che non ci state credendo, ma è tutto vero).
Il primo giorno è stato un suicidio.
Alla fine non ha piovuto (almeno quello), anche se il cielo è stato grigio e temibile per tutto l’arco della camminata. Ehm, intendevo dire scalata. Sì, perché il primo giorno, con 1200 metri di dislivello in sei ore circa, ho decisamente affrontato la camminata più difficile che io avessi mai provato. Eppure, di cose del genere ne ho fatte tante nella vita: ho gironzolato per le montagne più e più volte, ho fatto il Cammino di San Tommaso e la Via Francigena, ho camminato ore ed ore sotto al sole della Polonia ed ho circumnavigato Roma percorrendo l’intera via Appia. Eppure, non avevo mai faticato così tanto.
Il primo stop è stato al Rifugio Antermoia, altezza 2500 metri. Come si può intuire dal nome, il Rifugio Antermoia si affaccia sul lago che porta il medesimo nome. Un lago incastonato tra le vette rocciose, un contrasto tra l’acqua limpida ed il nero e bianco delle montagne. Abbiamo mangiato qualcosa e siamo ripartiti.
La scalata è stata estenuante, l’altezza si faceva sentire sempre più. Il paesaggio, però, magnifico. Le montagne, finalmente, quelle che piacciono a me: aspre, rocciose, a tratti innevate. Abbiamo visto caprioli, marmotte e rondini. Abbiamo visto delle nuvole che sembravano così vicine da sentirne quasi la consistenza.
Il punto più alto del nostro anello è stato il Passo Antermoia, a 2800 metri di altezza. Lì, ho provato per la prima volta dall’inizio della camminata, una sensazione di paura. Non credo che sarò mai in grado di descrivere il vento forte che tirava su quel passo. Le pessime previsioni atmosferiche, alla fine, si sono rivelate veritiere: sul passo tirava un vento così forte tanto da spostarmi, mi sentivo cadere nel vuoto. Non riuscivo a parlare con il mio ragazzo, che si trovava a meno di due metri da me. Ora ne ridiamo, ma quel pomeriggio sul passo ho pianto qualche lacrima di paura.
La nostra meta era il Rifugio Passo Principe, un rifugio piccolissimo incastonato nelle Dolomiti. Impossibile stare senza giacca a vento: il termometro alla mattina (n.b. era il 9 agosto) segnava quattro gradi. Il vento continuava a soffiare, incurante delle mie paure e del nuovo sole che (finalmente) sorgeva, pronto a regalarci una giornata decisamente più calda.
Giorno 2 – Passo Antermoia – Rifugio Roda di Vael (2300 metri)
Il secondo giorno è stato meno entusiasmante del primo che, nonostante la fatica a tratti insopportabile, ci ha regalato dei paesaggi mozzafiato, tra neve ancora fresca in certi punti e pareti di roccia imponenti e lucidissime, e una gita che, tutto sommato, oggi ricordiamo con ancora con stupore e felicità.
Il secondo giorno, partiti dal Rifugio Passo Principe di prima mattina, abbiamo fatto tappa al Rifugio Vajolet, crocevia di persone tanto che sembrava di essere al Shibuya Crossing. Il primo giorno, avevamo incontrato poche persone sul nostro cammino, tanto da farci pensare di aver intrattenuto quasi un rapporto esclusivo con le montagne che ci stavano intorno. Tutta quella gente ci stava un po' stretta: bevuto un caffè veloce, abbiamo quindi ripreso il nostro cammino.
Sulla strada tra il Vajolet e il Passo delle Zigolade, abbiamo vissuto un momento di autentico terrore, che si va a sommare a quello del giorno precedente. Il sentiero, che costeggiava il fianco della montagna, era abbastanza ben tenuto, e sebbene fosse praticamente sempre esposto a valle, non ho mai avvertito la sensazione di pericolo. I problemi sono cominciati circa a metà mattina, quando il terreno ghiaioso e ricoperto di neve, ci accorgiamo, sembra essere franato in un punto. Solo a pensarci, mi vengono ancora i brividi. Per passare da una parte all’altro, ci siamo dovuti aggrappare a degli spuntoni di roccia, rischiando seriamente di sbilanciarci e volare giù. Suggeriamo di dotare quel piccolo pezzo di una corda: noi, alla fine, ce l’abbiamo fatta a superarlo, ma solo perché non avremmo potuto fare una strada alternativa per arrivare alla nostra destinazione. Se così non fosse stato, saremmo sicuramente tornati indietro. Chi mi conosce lo sa, non sono un cuor di leone, in montagna soprattutto mi spavento spesso, e almeno una lacrima a gita è sicuro che mi scenda: quella mattina, però, ho guardato negli occhi il mio ragazzo, e l’ho visto impaurito. Lì, ho capito che per una volta, ero legittimata a farmi prendere dallo sconforto.
Una volta superato quel tratto impervio, la camminata è proseguita fino al Passo delle Zigolade, non senza difficoltà. Tra gole completamente innevate, scalette e ferrate improvvisate e scivoloni, il Passo di per sé è stata una passeggiata di salute! Dopo tutti gli spaventi della giornata, non desideravo altro che fare 200 metri di dislivello nudi e crudi. Scarponi ben piantati al suolo, e siamo arrivati in cima. Lì, la vista era bellissima, ma noi eravamo troppo stanchi, affamati e ancora impauriti dal tratto di sentiero franato, per voler stare lì ad osservare il panorama. Siamo quindi scesi, e in un’oretta siamo arrivati al Roda di Vael.
Il Roda di Vael è un rifugio molto frequentato, decisamente l’opposto rispetto al rifugio della prima notte. Anche il paesaggio è completamente diverso: iniziamo a scendere, e tutto inizia a farsi più verde e accogliente. Il sentiero non è più solo degli escursionisti più esperti, ma di tutti. Devo dire che, dopo un giorno e mezzo in alta montagna, abbiamo apprezzato questo ritorno alla normalità.
Qualche considerazione sparsa sui rifugi
Sia la prima che la seconda notte, abbiamo dormito in camerate. La prima notte abbiamo dormito in una specie di dependance del rifugio, in letti a castello. La stanza era piccola, e la sensazione di non avere i propri spazi molto forte. Abbiamo conosciuto una ragazza, però, che era in viaggio da due mesi, e adesso che scrivo questo articolo, dovrebbe essere ancora in viaggio. Dalla Liguria al Friuli: che viaggio. Abbiamo tentato di farci dare qualche consiglio su come preparare al meglio lo zaino, ma ci abbiamo rinunciato presto, capendo di non essere “così esperti”.
Al Passo Principe abbiamo mangiato benissimo: uova, pancetta e patate. Anche al Roda di Vael, anche se il loro punto di forza è stata la colazione. Ancora mi sogno quelle marmellata e la crema di nocciola.
Il mio ragazzo è un appassionato di astronomia, e non perde occasione per guardare le stelle e per farle scoprire anche a me. Al Roda di Vael ne abbiamo viste tante, anche se all’inizio c’erano molti nuvoloni ad oscurare il cielo che ci hanno fatto temere la beffa. Per fortuna, alla fine sono uscite. Il mio ragazzo ha anche spiegato a dei bambini dove guardare per vedere Saturno e Giove: buona azione quotidiana fatta, siamo andati a dormire. Anche qui, camerata: da dieci persone, questa volta. Fortunatamente, abbiamo occupato i letti dietro alla tendina (chi è esperto di rifugi, sa cosa intendo), quindi abbiamo potuto godere di un po' più di tranquillità.
Giorno 3 – Roda di Vael – Vigo di Fassa (1300 metri)
Il terzo giorno siamo scesi fino a Vigo di Fassa. Non abbiamo preso la funicolare dal Ciampedie perché, nonostante le fatiche della prima giornata, abbiamo scoperto di avere ancora molta energia nelle gambe.
Una volta arrivati giù, ci è sembrato per un attimo di essere tornati in mezzo alla civiltà dopo anni di isolamento. È la stessa sensazione che provo ogni volta che scendo da una montagna: le montagne ti portano da un’altra parte, in un mondo silenzioso e lento.
Abbiamo camminato per un’oretta tra i paesini di montagna. È stato bello, ma anche stancante: avevamo ancora i nostri zaini enormi sulle spalle, era mezzogiorno ed il sole di agosto si faceva sentire.
Una volta giunti a Mazzin, la nostra macchina era ancora lì dove l’avevamo lasciata. E meno male, perché nella piazza accanto il giorno prima c’era stato il mercato. Da lì, ci siamo diretti a Campitello di Fassa, dove ad attenderci c’era il nostro albergo prenotato per una notte.
Nonostante la bellezza delle montagne e dei rifugi, è sempre una sensazione “impattante” quella di poter di nuovo disporre di un bagno tuo, di una doccia e di un letto morbido. Inoltre, la camera d’albergo era bellissima: vetrate su entrambi i lati, balcone in legno e lettini prendisole. Dolce e meritato riposo.
Ultima chicca di questa vacanza: la sera siamo riusciti ad assistere anche ad un “concerto”, il primo dopo tanti mesi. C’era una band locale formata da ragazzi che cantava in piazza. Facevano anche un po' di rock, e il mio fidanzato era felice. Io un po' meno, ma l’atmosfera da concerto mi mancava così tanto che alla fine siamo rimasti solo noi due ad atteggiarci come i fan più accaniti della band di paese.
Perché lo rifarei altre mille volte
Chi più in alto sale, più lontano vede. Chi più lontano vede, più a lungo sogna. Lo sapeva Walter Bonatti, il re delle Alpi, nella cui esperienza e pratica, “montagna” vuol dire essenzialmente emozioni forti, travolgenti. Perché ciò che a valle “è scontato, reso banale dall'abbondanza, in alta montagna è vita”.
Ed è proprio così che mi sento tutte le volte che vedo le montagne: sfidata, ammaliata, un po' amata.
Non sono un’alpinista esperta, ma la montagna la mastico da tanto tempo. All’inizio non è stato un rapporto facile, io e lei non ci capivamo. Sono andata in campeggio per molti anni, e anno dopo anno, lei si è fatta scoprire, io mi sono un pò lasciata andare. Ancora mi spavento, ancora non ho fatto tante gite, non ho esplorato tutte le cime d'Italia e sono ben lontana dal riuscirci.
Camminare, però, quello lo faccio da una vita, e farlo in montagna mi piace, mi permette di guardarmi intorno con calma, e di capire che nella vita così come in ogni giorno, c'è bisogno di prendersi del tempo. Tempo per osservare, tempo per ascoltarsi, tempo per superare sé stessi.
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