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Immagine del redattoreMartina Nicelli

La vittimologia

Aggiornamento: 24 feb 2022

I primi studi relativi alla vittimologia risalgono agli anni Quaranta del secolo scorso, più precisamente al 1948, quando Hans Von Hentig, psicologo tedesco, scrive The Criminal and His Victim. Con Von Hentig l’attenzione, fino a quel momento focalizzata solo sull’autore del reato, è finalmente rivolta anche alla figura della vittima, soggetto che merita la medesima considerazione sino ad allora riservata solo al reo. In quegli anni nascono quindi i primi studi di natura vittimologica, sebbene se ne possano rintracciare segni addirittura a partire dagli ultimi decenni del XVIII secolo. Inoltre, risale al 1947 il primo utilizzo del termine “vittimologia” all’interno di una rivista francese da parte di Beniamin Mendelsohn, il quale si avvale di questa espressione in riferimento alla c.d. coppia penale, ossia la relazione criminologica che intercorre tra aggressore e vittima.


A questa disciplina dobbiamo il merito di aver messo in luce la figura della vittima, da intendersi non solamente come un soggetto che subisce passivamente le conseguenze di un reato, ma come parte attiva. La vittimologia, secondo quanto affermato da Guglielmo Gulotta nel 1976, si qualifica come quella subdisciplina criminologica che studia le caratteristiche della vittima, le sue relazioni con il soggetto agente e il ruolo da lei giocato nella dinamica della criminogenesi. Al fine di comprendere i motivi che hanno spinto ad una riflessione sulla figura della vittima del reato, è utile muovere dal ruolo che la stessa gioca nella legislazione penalistica italiana: quest’ultima, infatti, non trova posto, se non nell’accezione di persona offesa dal reato. La vittima ha la sola facoltà di costituirsi parte civile durante il processo, al fine di ottenere il risarcimento del danno subito.


È inoltre necessario soffermarsi sull’aiuto di cui necessitano le vittime di reato: un sostegno non solo emotivo, ma spesso anche di natura pratica, poiché la persona offesa dal reato è costretta ad affrontare realtà sconosciute come quella di un iter processuale. Bisogna sempre tener presente, poi, che il processo di vittimizzazione può avere conseguenze più o meno serie in relazione non solo al tipo di reato subito, ma anche in base alle caratteristiche individuali del soggetto. Non tutti gli individui, infatti, reagiscono allo stesso modo al verificarsi di un determinato evento, né possiedono le stesse risorse per affrontare l’impatto di un episodio criminoso.


Come spiega Emilio Viano, professore e presidente dell’International Society of Criminology, affinché la vittima si riconosca come tale, deve superare quattro momenti: la presenza di un danno, il riconoscersi come vittima, decidere quale strada intraprendere (se quella della denuncia penale o della confidenza ad una persona vicina) e, infine, ottenere il riconoscimento da parte della società al fine di ricevere solidarietà. Nello specifico, il docente si riferisce a due tipi di danno: il danno primario, direttamente conseguente all’azione criminosa (perdite economiche, lesioni fisiche); e il danno secondario, gli effetti negativi indotti sulla vittima dalle forze di polizia e dall’apparato giudiziario, nonché da familiari, amici e conoscenti.


Spostandoci ora nel panorama europeo, le istituzioni sono intervenute per porre l’accento sull’importanza di una formazione adeguata rivolta a tutti gli operatori che hanno a che fare con le vittime di reato. Nella Decisione Quadro del 15 marzo 2001 si ribadisce che ciascuno Stato membro deve incentivare, attraverso servizi pubblici o mediante il finanziamento delle organizzazioni di assistenza alle vittime, iniziative atte a offrire un’adeguata formazione professionale alle persone che intervengono nel procedimento penale. Ciascuno Stato si deve adoperare affinché alla vittima sia garantito un trattamento rispettoso della sua dignità durante il procedimento, assicurando che le vittime particolarmente vulnerabili beneficino di un trattamento specifico che risponda in modo ottimale alla loro situazione.


La vittimologia ha sicuramente avuto il merito di mettere in luce la figura della vittima, troppo a lungo lasciata nell’ombra, identificandola non esclusivamente come un soggetto passivo che subisce il reato, ma come un attore in grado di incidere significativamente sulla dinamica criminale. Gli autori di reato sono in grado di catalizzare l’attenzione dei mass media, i quali si interessano sì alla vittima, ma solo per un breve lasso di tempo che solitamente coincide con il periodo immediatamente successivo al verificarsi del reato, contribuendo ad intensificare la diffusione di sentimenti di curiosità, insensibilità e morbosità a discapito di chi si trova a dovere affrontare le conseguenze di un episodio vittimizzante perpetrato a suo danno. Dopodiché la vittima, soprattutto se non diventa protagonista utilizzando strumentalmente la vicenda occorsa per trarne dei benefici, viene messa da parte e dimenticata, come se la coppia penale fosse in realtà composta da un solo individuo, ossia l’autore del reato. La disciplina ha quindi sicuramente contribuito a restituire dignità alle vittime, ora non esclusivamente “persone offese dal reato”, ma individui che hanno subito una brusca interruzione del loro percorso di vita. Essa concerne la salvaguardia di diritti inalienabili ed è per questo che le istituzioni internazionali, ed in particolare il Consiglio d’Europa, hanno più volte invitato gli Stati a una riflessione e a un intervento che sappia tener conto delle peculiari necessità delle vittime.

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