Sovietistan
Tempo fa lessi un libro dal titolo “Sovietistan”. Lo comprai online in una delle mie solite sessioni di shopping compulsivo su uno dei miei siti preferiti[1], attratta dall’occasione di comprare due libri Feltrinelli a nove euro e novanta. Lo comprai tentando un po' la fortuna, convinta che: 1) se stava tra le offerte, forse non era poi un grande libro; 2) alla fine sembrava a metà tra un saggio e un documentario di viaggio, che non sono proprio i miei generi preferiti.
“Sovietistan” è un libro che, nonostante le aspettative basse quanto quelle del mio allenatore dell’epoca quando mi sentiva affermare, tutta seria e impettita, che sarei diventata una campionessa di pallavolo, ho divorato. Il viaggio della scrittrice norvegese Erika Fatland tra Turkmenistan, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Uzbekistan è stato sorprendente e allo stesso tempo affascinante.
I cinque stati dell’Asia centrale ottengono l’indipendenza da Mosca nel 1991, quando crolla l’Unione Sovietica. Sono paesi estremamente diversi tra loro: il Kazakistan è desertico, così come il Turkmenistan, dove, tra le dune placide, brucia incessante dal 1971 la “Porta dell’inferno”[2]; il Tagikistan, invece, è montuoso, con il suo altopiano del Pamir, chiamato, non a caso, “il tetto del mondo”. Il Kazakistan è diventato ricco grazie all’estrazione di petrolio, gas e minerali, e così anche il Turkmenistan, mentre il Tagikistan è poverissimo.
Dopo quasi trent’anni di autonomia, i cinque paesi sono ancora alla ricerca di una loro autonomia, stretti tra colossi mondiali come la Cina e la Russia, vicini di casa di paesi come l’Iran e l’Afghanistan, e al centro del continente asiatico. Sono territori di contrasti: dalla ricchezza del petrolio e dei gasi naturali, alla miseria più estrema dei villaggi rurali. I regimi del Turkmenistan e dell’Uzbekistan sono così autoritari e corrotti da essere paragonabili alla dittatura della Corea del Nord; nel Kirghizistan, invece, la popolazione ha già fatto cadere il presidente in carica due volte[3].
Kazakistan
Erika Fatland ci descrive il Kazakistan come un territorio immenso, dove non esistono taxi e dove l’unico modo per raggiungere un’altra città è quello di chiedere passaggio ai camionisti.
Secondo la lista annuale di Transparency International, il Kazakistan è il meno corrotto degli stati ex sovietici dell’Asia centrale. Questo, a ben vedere, non ci dice poi granché. Il Kazakistan, infatti, considerato su scala mondiale, risulta alla 143esima posizione su 177 paesi.
Il Kazakistan è un paese ricco, se si considerano le innumerevoli risorse naturali di cui dispone. E’ l’economia più forte dell’Asia centrale ma, anche qui, questo dato sembra dirci di più sugli altri paesi asiatici, che non sul Kazakistan stesso.
Il presidente, Nursultan Nazarbaev, è stato in carica dal 1989, quando fu nominato da Gorbačev stesso, al 2019. Con gli anni, è diventato sempre più autoritario, e all’interno del paese non esiste una vera e propria opposizione politica[4]. La libertà di espressione non è contemplata: da dieci anni a questa parte, decine e decine di giornali indipendenti e siti web sono stati chiusi dal regime.
La protesta
E’ grazie alla lettura di “Sovietistan” che ora so molte più cose del Kazakistan. Quando, qualche settimana fa, lessi la storia di alcune donne che per protestare, proprio lì, nel paese più esteso dell’Asia centrale, si erano rasate a zero, la mia mente si catapultò immediatamente ai capitoli del libro di Erika Fatland.
Il 9 luglio del 2019, in Kazakistan si sono svolte le elezioni. Tokayev è stato eletto. Il partito al governo da anni (Nour Otan) ha vinto (di nuovo). Come tutte le volte, ci sono state proteste e arresti.
Le elezioni appena concluse sono state criticate dalle organizzazioni per la salvaguardia dei diritti umani. La vittoria di Kassym Jomart-Tokayev è stata denunciata a livello internazionale, avvenuta senza una reale libertà politica. Non è stato possibile costruire una valida alternativa, tanto che i sostenitori dell’opposizione hanno scelto di boicottare le elezioni e manifestare nelle piazze, venendo arrestati a centinaia. L’OCSE ha definito la campagna elettorale di Tokayev come “non competitiva assieme alle limitazioni di fatto sistemiche alle libertà fondamentali garantite dalla costituzione hanno lasciato gli elettori senza una libera scelta”.
Questa volta, però ci sono state anche sei donne, che con il loro coraggio hanno denunciato una storia di soprusi e privazioni. Sei donne che si radono i capelli per protestare contro “la prigione chiamata Kazakistan”, in un video pubblicato dall’attivista Dana Zhanay, che dirige la Fondazione per i diritti umani “Qaharman”. Le donne si radono per denunciare gli abusi del governo del presidente Tokayev che è succeduto a Nursultan Nazarbayev nel 2019.
Le sei donne chiedono la libertà per i prigionieri politici, di parola, di manifestare pacificamente. Chiedono che ci sia una vera e propria opposizione.
Un gesto che per noi europei può sembrare di poco conto, per queste donne ha rappresentato una vera e propria protesta: il Kazakistan, infatti, è un paese a maggioranza musulmana, e alle donne è vietato rasarsi i capelli.
L’esperta kazaka Aruzhan Meirkhanova, in un articolo pubblicato sul network eurasianet.org, ha più volte ribadito quando la democrazia, in Kazakistan, funzioni in un solo modo: con cautela e secondo lo scenario.
Tokayev si pone come sostenitore delle riforme politiche ma, ad oggi, poche delle sue promesse fatte al popolo kazako si sono trasformate in riforme significative.
In particolare, la nuova legge sulla procedura per l’organizzazione e lo svolgimento di assemblee pacifiche, che, secondo le autorità, avrebbe dovuto rendere più facile per le persone organizzare tali azioni, non è stata all’altezza delle aspettative. C’è di più: la Meirkhanova fa riferimento anche alla cosiddetta legge di “opposizione parlamentare”, emanata da Tokayev, a seguito della quale il governo kazako dovrebbe dare potere ai partiti politici meno affini all’esecutivo. Secondo l’esperta, la legge somiglia incredibilmente ai “villaggi Potëmkin” dei tempi della zarina Caterina II”. In questo caso, Potëmkin faceva costruire interi villaggi, falsi e idilliaci, nei posti dove la zarina era in visita, in modo da nascondere la povertà e l’arretratezza dell’Impero russo.
[1] Il sito del Libraccio. [2] La “Porta dell’inferno” è un cratere di gas naturale collassato in una caverna situata a Darvaza, in Turkmenistan. I geologi lo hanno intenzionalmente dato alle fiamme per impedire la diffusione di gas metano, e si presume che stia bruciando senza sosta dal 1971. Sono stati gli abitanti del villaggio a dargli questo nome, prima di venire cacciati e spediti in altri territori: il cratere, infatti, è una popolare attrazione turistica (dal 2009, è stato visitato da più di 50.000 turisti), e il governo del Turkmenistan non poteva permettersi che i turisti stranieri avessero a che fare con delle persone che vivevano in tali misere condizioni. Così lo descrive Erika Fatland, alla prima pagina del suo libro, “Sovietistan”: “Le fiamme del cratere hanno fatto sparire le stelle e prosciugato tutte le ombre della luce. Le lingue di fuoco sibilano: sono migliaia. Alcune sono grandi come cavalli, altre piccole come gocce d’acqua.” [3] Nel primo capitolo del suo libro, Erika Fatland descrive con grande maestria l’occupazione degli stati dell’Asia centrale lungo i secoli, popolazioni perlopiù nomadi che si sono viste attaccate più e più volte e che avevano come unica colpa quella di stare a metà strada fra est e ovest. [4] Certo è che se paragonato al vicino Turkmenistan, il Kazakistan sembra il baluardo della libertà. In Turkmenistan, il culto del presidente è la legge. L’ex presidente Turkmenbashi, l’uomo passato alla storia come uno dei più bizzarri dittatori di tutti i tempi, è dovunque: statue, edifici che portano il suo nome. Ma ancora, la sua immagine rappresentata sui soldi locali, il manat, e il suo profilo sempre presente su ognuno dei tre canali televisivi consentiti. Turkmenbashi introdusse ben presto una legge che gli conferiva la facoltà di destituire chiunque gli si opponesse. Introdusse anche il visto per i cittadini russi e di altri stati post-sovietici. Sotto il suo dominio, durato fino al 2006, anno della sua morte, il Turkmenistan ha sopportato una novità dopo l’altra: l’ex presidente ha prima cambiato i nomi dei giorni della settimana e dei mesi. Ashgabat, la capitale, è stata interamente ricostruita, diventando la città con più edifici in marmo del mondo. Le donne non potevano più truccarsi, gli uomini non potevano avere barba e capelli lunghi, Furono vietati circhi e opere liriche. Turkmenbashi si appassionò così tanto a quella che lui definiva “l’identità turkmena”, che nel 2001 scrisse il Ruhnama, il “libro dell’anima” rivolto al popolo turkmeno. Tutte le aziende straniere che volevano fare affari col Turkmenistan, dovevano far tradurre il Ruhnama nella loro lingua, con il risultato che oggi il Ruhnama è stato tradotto in più di quaranta lingue. Nel 2003, Turkmenbashi fece chiudere tutti gli internet caffè del paese, con la conseguenza che nessun turkmeno fu più in grado di collegarsi alla rete. Nonostante dopo l’indipendenza dalla Russia, Turkmenbashi potesse tenere per sé i ricavi dell’esportazione di gas e petrolio, i soldi non bastavano per finanziare tutti i suoi progetti. Chiuse tutti gli ospedali di provincia, licenziò insegnanti e ridusse la scuola dell’obbligo. Dato che gli unici libri che valesse la pena leggere erano il Ruhnama e il Corano, Turkmenbashi chiuse tutte le biblioteche. Dal 2007, presidente del Turkmenista è Gurbanguly Berdimuhamedow, dentista e ministro della Sanità durante la dittatura di Turkmenbashi. In proposito, Erika Fatland scrive che: “Da quando è salito al potere, Berdimuhamedow ha portato avanti e perfezionato il pugno di ferro con cui governa il paese. I media hanno le mani legate come sotto Turkmenbashi, e il Turkmenistan ha mantenuto l’ultimo posto nella classifica della libertà di stampa di Reporter senza frontiere, insieme all’Eritrea e alla Corea del Nord.”
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