Il 17 novembre di trentadue anni fa, Benazir Bhutto viene eletta come Primo Ministro del Pakistan. A 35 anni, è la prima donna alla guida di un paese musulmano.
Siamo nel 1988, io sarei nata otto anni dopo.
Arriviamo al 2007. Benazir ha 54 anni e ha appena concluso l’ultimo comizio elettorale del Partito Popolare Pakistano nella città di Rawalpindi, all’apice del consenso elettorale: due settimane dopo ci sarebbero state le elezioni politiche. All’improvviso, però, due colpi di arma da fuoco, poi un kamikaze si fa esplodere. Trasportata d’urgenza in ospedale, per lei e per altre venticinque persone non c'è più nulla da fare. Poco prima di essere uccisa aveva parlato dei rischi che sapeva di correre: “Metto la mia vita in pericolo e sono qui perché credo che questo Paese sia in pericolo.”
Ma chi era Benazir?
Benazir Bhutto faceva parte di una delle famiglie più potenti del paese. Figlia dell'ex primo ministro pakistano Zulfiqar Ali Bhutto, conosciuto per l’atteggiamento estremamente laico sulle questioni religiose e per i discorsi improntati sul tema della giustizia sociale, Benazir aveva studiato prima in America e poi Inghilterra. Nel 1973 si laurea in Scienze politiche ad Harvard. Si trasferisce ad Oxford per specializzarsi in politica, filosofia ed economia, e pubblica un libro sulla politica estera. Dopo gli studi universitari torna in Pakistan, dove suo padre viene prima deposto e poi ucciso dal dittatore al potere, il generale Muhammad Zia-ul-Haq.
Al momento della sua morte, Bhutto era la leader di uno dei principali partiti dell’opposizione al governo di Musharraf, che era arrivato al potere con un colpo di stato nel 1999. Era appena ritornata in Pakistan per partecipare alle elezioni: nel 1999, infatti, aveva lasciato il paese per otto anni di esilio auto-imposto, prima a Dubai e poi a Londra.
Nessuno è mai stato condannato per l’omicidio di Benazir Bhutto. La famiglia Bhutto e il Partito Popolare Pakistano mantengono la posizione “ufficiale” che Benazir sia stata uccisa da esponenti delle famiglie talebane che vivono in Pakistan, mentre Bilawal, figlio di Benazir, ha affermato che in realtà la responsabilità dell’omicidio è del regime di Musharraf, e il responsabile è stato individuato nel capo talebano Baitullah Mehsud, che da parte sua si dichiarò innocente: è possibile, però, che la verità non si sappia mai, perché Mehsud venne ucciso da un drone americano nell’agosto del 2009.
Perché parlare di lei, a quasi dodici anni dalla sua morte?
Benazir Bhutto è riuscita a diventare Primo Ministro in un paese islamico, dove le donne difficilmente riescono a ricoprire ruoli di prestigio. Non un ruolo qualunque, quello di Benazir: un ruolo decisionale per un’intera nazione, un ruolo che, nel mondo islamico, è prerogativa esclusiva degli uomini. È molto difficile anche oggi, nella modernissima e democratica Europa, che le donne ottengano un ruolo alla pari di un uomo (e sapete quanto questo argomento ritorni spesso nei miei articoli): devono sempre dimostrare di saper far bene il loro lavoro, il doppio se non il triplo di un uomo. In un Paese islamico, nel quale il ruolo della donna è sempre subalterno, tutto questo è quasi impossibile. Le donne della famiglia Bhutto erano state le prime donne pakistane a non indossare i vestiti islamici, avevano studiato tutte all’estero e avevano ricevuto una cultura occidentale. Benazir era l’emblema del riscatto della donna nel mondo musulmano.
In un mondo -sembra retorica, questa, ma non lo è. Guardate i dati- dove i ruoli di potere sono ricoperti quasi sempre da uomini, è confortante fermarsi un attimo a guardare il passato, e pensare che nel 1988, in uno stato come il Pakistan, il Primo Ministro era proprio una donna.
In questo 2020, i capi di Stato di genere femminile sono solo venti. In tutto il pianeta. Basta leggere la lista striminzita dell’UN Women (United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women): Islanda, Danimarca, Germania, Belgio, Svizzera, Norvegia, Finlandia, Estonia, Slovacchia, San Marino, Serbia, Georgia, Nepal, Bangladesh, Singapore, Nuova Zelanda, Etiopia, Barbados, Trinidad e Tobago e Bolivia. Non mi stancherò mai di ripeterlo: non è insensato parlare oggi di discriminazione di genere, così come non è scontato che tutti ne siano a conoscenza – non lo è per niente, in effetti. In un mondo (pardon, in un’Italia) in cui, durante il classico programma dell’ora di cena, si utilizzano aggettivi come “bellissima” e “aggraziata” per descrivere la prima ministra finlandese Sanna Marin, non mi stupisco che i ruoli istituzionali ricoperti da donne siano così pochi, se queste sono le caratteristiche per le quali dovremmo complimentarci con la Marin (che di lavoro, ricordiamolo, non fa la modella, quindi non dovremmo soffermarci più di tanto a commentare la sua bellezza, o sbaglio?).
Molti hanno sperato che la morte di Benazir avrebbe avuto un impatto notevole nel processo di emancipazione femminile nel suo paese. Mi piacerebbe raccontare le storie di altre donne che abbiano acquisito ulteriori diritti in Pakistan, invece la cronaca mi riporta ai soliti crimini in cui la donna è sempre e solo vittima. Vi ricordate di Hina Salem, la ragazza uccisa nel 2006 in Italia dai parenti, sgozzata e sepolta nel giardino di casa con la testa rivolta alla Mecca, perché voleva essere “normale” invece di seguire il rituale del matrimonio combinato? Era pakistana. Anche Malala Yousafzai è pakistana, la giovane attivista premio Nobel per la pace, anche lei vittima -superstite- di un attentato. Pakistana è Asia Bibi, la donna accusata di blasfemia e per questo incarcerata per nove anni, che oggi si nasconde in una località segreta in Pakistan per sfuggire agli estremisti islamici.
Storie di donne, di ieri e di oggi. Nel caso di Benazir Bhutto, ci troviamo in Pakistan, immersi nella cultura e nella tradizione di questo paese, certamente non ignorabile. E nel resto del mondo? Se mai si possa parlare di scuse, io al momento, se guardo alla mia Europa, non ne vedo. E, sottolineiamolo, io non sono convinta che le donne siano, a priori, meglio degli uomini. Questo è un discorso che solo chi non ha la minima idea di cosa voglia dire l’ideologia femminista potrebbe fare. Un Primo Ministro donna -perché di questo si sta parlando, dopotutto- non è a priori più competente, più capace e più intelligente di un Primo Ministro uomo. Non ci dovrebbero essere differenze di sorta, semplicemente. Ogni persona dovrebbe avere la possibilità di sperimentarsi, di farsi amare o farsi odiare, di lasciare un segno o di abbandonare la carica dopo due giorni.
Oggi vi parlo di Benazir Bhutto, domani chissà. Spero di poter smettere, un giorno, di scrivere articoli arrabbiati. Per farlo, però, qualcosa deve cambiare.
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